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10 marzo 2022

Lovecraft: Così continueremo a pensare, a dibatterci, a lottare e ad ingannarci nel nostro più profondo intimo

«Dobbiamo comprendere che la natura umana rimarrà sempre la stessa, finché l'uomo resterà uomo; che la civiltà è soltanto una debole copertura dietro la quale sonnecchia la bestia dominante, sempre pronta a risvegliarsi.
Per difendere la civiltà, dobbiamo trattare in modo scientifico l'elemento del "bruto", usando soltanto genuini principi biologici.
Nella considerazione di noi stessi, pensiamo troppo all'etica e alla sociologia, e troppo poco alla semplice storia naturale. Dovremo capire che il periodo dell'esistenza storica dell'uomo, un periodo così breve che la sua costituzione fisica non è stata minimamente alterata, non è stato sufficiente a permettere nessun considerevole cambiamento mentale.
Gli istinti che dominavano gli Egiziani e gli Assiri dominano allo stesso modo anche noi; e, come gli antichi pensavano, si dibattevano, lottavano e si ingannavano, così noi moderni continueremo a pensare, a dibatterci, a lottare e ad ingannarci nel nostro più profondo intimo. Il cambiamento è solo superficiale e apparente.
Il rispetto che l'uomo nutre per gli elementi imponderabili, varia a seconda della sua struttura mentale e dell'ambiente in cui vive. Mediante alcune tecniche di pensiero e di educazione, esso può essere notevolmente accresciuto, ma c'è sempre un limite.
L'uomo o la nazione di elevata cultura possono accettare in linea di massima le restrizioni imposte dalle convenzioni e dall'onore ma, superato un certo limite, la volontà — o desiderio primitivo — non può essere repressa. Una volta negato ciò che viene ardentemente desiderato, l'individuo o lo Stato ragioneranno e discuteranno soltanto fino a quel limite, poi, se il motivo impellente sarà sufficientemente grande, metteranno da parte ogni regola e si libereranno da ogni inibizione che è stata loro imposta, immergendosi con voluttà nell'oggetto desiderato, e tutto questo con una violenza inimmaginabile proprio a causa della precedente repressione. L'unico fattore che trionfa, alla fine, nella decisione umana, è la forza bruta.
Questo è quello che dobbiamo imparare, per quanto l'idea ci possa apparire ripugnante, se vogliamo proteggere noi stessi e le nostre istituzioni. Rifugiarsi in qualcosa di diverso è fallace e pernicioso.»

– H.P. Lovecraft, Alle radici, in "Tutti i romanzi e i racconti", a cura di G. Pilo e S. Fusco, Netwon Compton Ed., 2009, pag. 1022

8 dicembre 2021

Nietzsche: Questo eterno divenire è un menzognero giuoco di burattini

«[...] proprio a questo tendono tutti gli ordinamenti dell’uomo, a fare cioè in modo che la vita, in una continua distrazione dei pensieri, non venga sentita.
Ma perché egli vuole così energicamente l’opposto, sentire cioè proprio la vita, vale a dire soffrire per la vita? Perché vede che lo si vuol frodare di lui stesso e che vi è una specie di accordo per rapirlo via dalla sua caverna. Allora si ribella, tende gli orecchi e decide: "io voglio rimanere mio!". È una decisione spaventosa; solo a poco a poco se ne rende conto. Ora infatti deve affondare nella profondità dell’esistenza con una serie di domande insolite sulle labbra: perché vivo? quale lezione debbo trarre dalla vita? come sono diventato qual sono e perché soffro di questo esser-così? Si tormenta: e vede che nessuno si tormenta così, che, anzi, le mani del suo prossimo sono appassionatamente tese verso i fantasmagorici avvenimenti che il teatro politico offre, oppure che gli uomini vanno facendo mostra orgogliosa di sé in cento maschere come giovani, uomini, vecchi, padri, cittadini, preti, funzionari, mercanti, assiduamente preoccupati della loro commedia comune e niente affatto di sé. Alla domanda: a che vivi? essi risponderebbero rapidamente e con orgoglio: "per diventare un buon cittadino, scienziato, uomo politico"; eppure essi sono qualche cosa che non può diventare niente altro, e perché sono per l’appunto ciò? Ahimè, e niente di meglio? Chi intende la sua vita soltanto come un punto nello sviluppo di una stirpe, di uno Stato o di una scienza, e dunque vuole appartenere completamente al racconto del divenire, alla storia, non ha compreso la lezione che l’esistenza gli impartisce e deve studiarla un’altra volta. Questo eterno divenire è un menzognero giuoco di burattini per il quale l’uomo dimentica se stesso, la vera e propria distrazione che disperde l’individuo a tutti i venti, il giuoco insipido e senza fine che il grande fanciullo tempo giuoca davanti a noi e con noi. L’eroismo della veridicità è di cessare un giorno di essere il suo giocattolo.»

– Friedrich Nietzsche, Schopenhauer come educatore, tr. it. di Mazzino Montinari

11 agosto 2020

Sartre: Quella radice era impastata nell’esistenza

«Se mi avessero domandato che cosa era l’esistenza, avrei risposto in buona fede che non era niente, semplicemente una forma vuota che veniva ad aggiungersi alle cose dal di fuori, senza nulla cambiare alla loro natura. E poi, ecco: d’un tratto, era lì, chiaro come il giorno: l’esistenza s’era improvvisamente svelata. Aveva perduto il suo aspetto inoffensivo di categoria astratta, era la materia stessa delle cose, quella radice era impastata nell’esistenza. O piuttosto, la radice, le cancellate del giardino, la panchina, la rada erbetta del prato, tutto era scomparso; la diversità delle cose e la loro individualità non erano che apparenza, una vernice. Questa vernice s’era dissolta, restavano delle masse mostruose e molli in disordine - nude, d’una spaventosa e oscena nudità. [...]
Il castagno mi si premeva contro gli occhi. Una ruggine verde lo copriva sino a mezz’altezza; la corteccia nera e rigonfia sembrava di cuoio bollito. Il tenue rumore dell’acqua della fontana Masqueret mi scorreva dentro le orecchie e vi si faceva un nido, le riempiva di sospiri; le mie narici traboccavano d’un odore verde e putrido. Ogni cosa si lasciava andare all’esistenza, dolcemente, teneramente, come quelle donne stanche che s’abbandonano al riso e dicono: "ridere fa bene" con voce molle; le cose si stendevano l’una di fronte all’altra facendosi l’abbietta confidenza della propria esistenza. Compresi che non c’era via di mezzo tra l’inesistenza e questa sdilinquita abbondanza. Se si esisteva, bisognava esistere fin lì, fino alla muffa, al rigonfiamento, all’oscenità. [...]
Invano cercavo di contare i castagni, di situarli in rapporto alla Velleda, di confrontare la loro altezza con quella dei platani: ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, s’isolava, traboccava. Di queste relazioni (che m’ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l’arbitrarietà; non avevano più mordente sulle cose, Di troppo, il castagno, lì davanti a me, un po’ a sinistra. Di troppo la Velleda...
Ed io - fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pensieri - anch’io ero di troppo. [...] Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue. Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo. Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo a quel giardino sorridente. E la carne corrosa sarebbe stata di troppo nella terra che l’avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, scorticate, nette e polite come denti, sarebbero state anch’esse di troppo: io ero di troppo per l’eternità.
La parola Assurdità nasce ora sotto la mia penna; poco fa, al giardino, non l’avevo trovata, ma nemmeno la cercavo, non ne avevo bisogno: pensavo senza parole, sulle cose, con le cose. L’assurdità non era un’idea nella mia testa, né un soffio di voce, ma quel lungo serpente morto che avevo ai piedi, quel serpente di legno. Serpente o radice o artiglio d’avvoltoio, poco importa. E senza nulla formulare nettamente capivo che avevo trovato la chiave dell’Esistenza, la chiave delle mie Nausee, della mia vita stessa.
Difatti, tutto ciò che ho potuto afferrare in seguito si riporta a questa assurdità fondamentale.
Assurdità: ancora una parola; mi dibatto contro le parole; laggiù nel giardino, la toccavo, la cosa. [...] Ma io, poco fa, ho fatto l’esperienza dell’assoluto: l’assoluto o l’assurdo. Quella radice: non v’era nulla in rapporto a cui essa non fosse assurda. Oh! Come potrò spiegare questo con parole? Assurda: in rapporto ai sassi, ai cespugli d’erba gialla, al fango secco, all’albero, al cielo, alle panche verdi. Assurda, irriducibile; niente – nemmeno un delirio profondo e segreto della natura – poteva spiegarla. Naturalmente io non sapevo tutto, non avevo visto il germe svilupparsi e l’albero crescere. Ma davanti a quella grossa zampa rugosa, né l’ignoranza né il sapere avevano importanza: il mondo delle spiegazioni e delle ragioni non è quello dell’esistenza.»

– Jean-Paul Sartre, La nausea (tr. it. di Bruno Fonzi, Einaudi, Torino 2014, p.172 e ss.)

9 giugno 2020

De Sade: Tutto è vizio nell'uomo

Nessuna voce del cuore si cela in effetti nei riposti segreti dell'animo. Nessuna luce ultramondana trapela attraverso la sorda e sempiterna materia. Solo il grido disperato e disperante delle vittime si leva dai recessi del dolore in cui esse sono confinate. Solo la ferocia degli istinti libertini possiede il diritto e/o la forza di mettere a tacere le esigenze altrui, abbrutite ed umiliate nelle orrifiche maglie della violenza e della crudeltà assolute.
[...]
Privo dell'anima e, quindi, della supposta capacità di autodeterminarsi, l'uomo non è altro che un aggregato di materia variamente combinata: incapace di scegliere cosa sentire e desiderare, è macchinalmente portato ad inseguire la specifica felicità cui i suoi istinti anelano e, animale tra altri animali, non differisce da un verme o da una mosca se non per una maggiore complessità della struttura dalla quale è composto. Quand'anche, cercando di uscire dalla monadica solitudine in cui se sente confinato, tentasse di stabilire un rapporto con i suoi simili, egli non potrebbe superare i limiti fisiologici che delimitano ogni essere vivente, né comprendere qualcosa che sia fisicamente diverso da se stesso e dai propri bisogni. Una legge tuttavia lo accomuna agli altri organismi; una norma insita tanto nella creatura più pacifica e bonaria quanto in quella più feroce e crudele: l'egoismo, signore e padrone dell'intera natura. Come numerosi moralisti e, in particolar modo, Francois de La Rochefoucauld, Sade non considera l'amour propre qualcosa da cui la coscienza umana si possa liberare, bensì una dimensione inestirpabile, l'essenza più profonda ed intima di qualsivoglia realtà esistente:
Tutto perciò è vizio nell'uomo e il solo vizio è l'essenza della sua natura e del suo organismo. L'uomo è vizioso quando preferisce il proprio interesse a quello degli altri ed è vizioso nello stesso seno della virtù, dal momento che questa virtù, questo sacrificio delle passioni non è altro in lui se non un moto d'orgoglio o il desiderio di fare refluire su di sé una dose di felicità più serena di quella offertagli dal delitto. [Juliette ovvero le prosperità del vizio (1801), trad. di P. Guzzi, Newton Compton, Roma, 1993, vol. I, p. 137]
Da questo punto di vista, ogni impostazione etica perde qualsiasi valore autonomo ed assiologico: non essendo altro che uno stratagemma per occultare i moventi soggettivi, essa viene impiegata solo da coloro che, per necessità di cosa, non possono estrinsecare direttamente i desideri patiti, e ottenere subito quel che altri sa prendere e conquistare repentinamente.
[...]
La forza di cui parla sovente Sade non ha [...] alcun fondamento sociale, ma è generata esclusivamente da una causa soggettiva, la quale rappresenta ciò che spinge taluni individui tanto verso la conoscenza quanto verso l'emancipazione comportamentale, indistinguibili e medesimi principi degli intelletti più robusti e lucidi:
L'elemento della fiaccola della filosofia è lo sperma. Tutti i principi morali e religiosi scompaiono completamente quando sopraggiungono le passioni.” [La nuova Justine ovvero le sciagure della virtù (1799), trad. di F. Nicoletti Rossini, Newton Compton, Roma, 1993, p. 73]
Un solo Eros – e non due, come vorrebbe Platone nel Simposio – muove dunque la coscienza: un bisogno volgare, terreno, lubrico. L'altro, frutto della fantasia e dell'immaginazione del famoso filosofo greco, non esiste né potrebbe mai esistere. Al di là della materia e della biologica felicità cui anelano gli uomini, involontariamente precipitati in "questo mondo", non c'è del resto nulla: non si disvela e concreta alcuna verità possibile.
L'animo è dunque gettato dalla natura in una realtà estranea ed innocente la cui sola ed unica determina il continuo ed incessante divenire delle forme: se vuole appagare le brulicanti esigenze dalle quali è percorso, deve avere il coraggio di perseguire una felicità intensa ed estrema, la quale non può punto considerare il dolore altrui un limite degno di considerazione o di rispetto alcuni.


– Marco Ranalli, De Sade. Il pensiero filosofico, Editrice Clinamen, 2011, pp. 81-83

8 giugno 2020

La Mettrie: Il rimorso non è altro che un vecchio pregiudizio

«Il rimorso non è dunque che una spiacevole reminiscenza, una vecchia abitudine di sentire che riprende il sopravvento. Si tratta, se si vuole, di una traccia che si rinnova, e quindi di un vecchio pregiudizio che le voluttà e le passioni non riescono ad addormentare così bene che questo prima o poi non si risvegli quasi sempre.
[...] Altra religione, altri rimorsi; altri tempi, altri costumi [...]
Un flagello dell'umanità più terribile di tutti i vizi messi insieme e che non è seguito da alcun pentimento è la carneficina della guerra. Così ha voluto l'ambizione dei prìncipi. A tal punto la coscienza che produce questo pentimento è figlia dei pregiudizi! E invece questo buon uomo il quale, trascinato da un moto impulsivo, ha ucciso un cattivo cittadino o si è abbandonato a una passione di cui non è padrone, quest'uomo, dico, del più gran valore, è tormentato dai rimorsi che non avrebbe avuto se avesse ucciso un avversario da valoroso, o se un prete, legittimando la sua passione, gli avesse dato il diritto di fare ciò che tutta la natura fa.
Ah, se è vero che la grazia è accordata per salvare illustri infelici; se in certi casi, come suggerisce Cartesio, il farne uso è cosa più augusta e regale di quanto non sia terribile il rigore delle leggi: allora la grazia più essenziale consiste, secondo me, nell'esentare l'uomo dal rimorso

– Julien Offray de La Mettrie, Discorso sulla felicità (1750), in Opere filosofiche, trad. di S. Moravia, Laterza, Bari, 1992, pp. 324-325

3 giugno 2020

Lenau: Sera d'autunno (il rauco appello del folle sogno d'un'eterna vita)

Spira gelido il vento, i rami spoglia,
E par che gridi dentro alla foresta

La buona notte della terra ai figli.
Manda sul colle il raggio suo la luna,
E sulla valle dove il bosco mormora
Corron le grigie nuvole. Il ruscello
Scende portando con sommesso pianto
Le foglie dei morenti alberi.
Mai
Io non udii ruscel più dolcemente
Piangere. Al lido sorge il mesto salice
Col ricadente fragile suo crine;
Io ripensando ad un estinto amico
Guardo il ruscel che mormora correndo
Non ci vedremo più.
Ma l'aria a un tratto
Di voci odo suonar. Son le selvagge
Oche fuggenti innanzi all'invernale
Orror: con ala rapida sen vanno,
Lasciando dietro a sé l'autunno e sui
Colli il morire e lo sfiorire. Or dove
Son esse? Come pronte anzi alla chiara
Luna passar celandosi allo sguardo!
Ma quel grido presago è ancor nell'aria
E al cuore un senso di tristezza infonde.
Con cicaleccio frettoloso al Sud
Traggon gli augei, ma pur ricuopre l'ala
Della Morte anche il Sud. Negli inquieti
Sogni all'Eterno la Natura aspira
Via da' regni di morte: il rauco appello
Dei pellegrini alati il grido sembra
Del folle sogno d'un'eterna vita.

Più non li sento, e' son di qua già lunge:
Comincia il canto funebre del dubbio
Nel petto mio: la vita è illusione,
Fata Morgana solo: orma bugiarda
Dell'Eterno; ma allor perchè si piange,
Se apparenza è la vita, al suo finire?
È apparenza anche il pianto?
In tal maniera
Corrono i pensier miei, sbrigliati come
Sopra la valle i nuvoli d'autunno.


– Nikolaus Lenau, Sera d'autunno (Ein Herbstabend)


[da "Lenau e Leopardi, studio psicologico-estetico con un saggio di versioni poetiche dal Lenau", di Alfredo Faggi, Alberto Reber ed., 1898, Palermo, pp. 61-62]

11 aprile 2020

Pascal: il divertimento come distrazione da noi stessi e dalla nostra condizione disgraziata

«Divertimento.
Quando mi è capitato di riflettere sulle diverse inquietudini degli uomini, sui pericoli e sulle pene a cui si espongono a corte, in guerra, là dove nascono tanti contrasti, passioni, imprese ardite e spesso malvagie, mi son detto spesso che tutti i mali degli uomini derivano da una sola cosa, dal non saper stare senza far nulla in una stanza. Un uomo che avesse beni sufficienti per vivere, se sapesse stare a casa propria con piacere, non ne uscirebbe per andare sul mare o all’assedio di una fortezza, non acquisterebbe a caro prezzo una carica nell’esercito se non trovasse insopportabile la vita nella sua città, e non cercherebbe le conversazioni e i divertimenti dei giochi se sapesse stare a casa propria con piacere.
Quando poi ho riflettuto più accuratamente e, dopo aver considerato da dove vengono tutti i nostri mali, ho cercato di scoprirne la ragione, ho scoperto che ce n’è una ben reale, che consiste nella disgrazia naturale della nostra condizione debole e mortale, così miserevole che nulla può consolarci quando ci fermiamo a pensarci.
[...]
Se [gli uomini] cercano di ottenere una carica, immaginano che, una volta ottenuta, vivranno in pace, e non percepiscono la natura insaziabile del loro desiderio; credono sinceramente di cercare la quiete, e non cercano invece che l’agitazione. Hanno un istinto segreto – un riflesso della percezione delle loro miserie continue – che li porta a cercare il divertimento, a tenersi occupati in cose che li distraggono da se stessi, cose esteriori. Ed hanno poi anche un altro istinto segreto – un residuo della grandezza della nostra prima natura – che fa loro sapere che la felicità non è in effetti che nella quiete, e non nell’agitazione, e da questi istinti contrapposti si forma in essi un progetto confuso che si nasconde alla loro vista, nella profondità della loro anima, che li porta a cercare la quiete attraverso l’agitazione, e ad immaginarsi sempre che la soddisfazione che adesso non hanno arriverà se, superando le difficoltà che si intravedono, potranno aprirsi per questa via la porta della quiete. Così passa tutta la vita: si cerca la quiete impegnandosi per superare gli ostacoli e, se li si supera, la quiete diventa insopportabile, per la noia che genera: bisogna uscirne, e inseguire l’azione. Si pensa alle propria attuali miserie, o a quelle che ci minacciano. E anche quando ci si sente abbastanza protetti dalle minacce che possono giungere da ogni parte, la noia ha una sua intima forza che le consente di saltar fuori dalle profondità del cuore, dove ha radici naturali, e di spargere nello spirito il suo veleno.
L’uomo è infelice. Si annoia perché questa è la sua natura, anche quando non ce n’è alcun altro motivo. Ed è così superficiale che, pur pieno di mille cause essenziali di noia, si lascia divertire dalle più piccole distrazioni, come un biliardo e una pallina da colpire.
»

– Blaise Pascal, Pensieri (a cura della redazione del Giardino dei Pensieri)

testo francese con link ai manoscritti originali:
http://www.penseesdepascal.fr/Divertissement/Divertissement4-moderne.php

12 dicembre 2019

Nietzsche: In una tale costellazione, da quale parte del mondo sorgerà mai l’impulso verso la verità?

«In senso proprio, che cosa sa l’uomo su se stesso? Forse che, una volta tanto, egli sarebbe capace di percepire compiutamente se stesso, quasi si trovasse posto in una vetrina illuminata? Forse che la natura non gli nasconde quasi tutto, persino riguardo al suo corpo, per confinarlo e racchiuderlo in un’orgogliosa e fantasmagorica coscienza, lontano dall’intreccio delle sue viscere, dal rapido flusso del suo sangue, dai complicati fremiti delle sue fibre? La natura ha gettato via la chiave, e guai alla fatale curiosità che una volta riesca a guardare attraverso una fessura dalla cella della coscienza, in fuori e in basso, e che un giorno abbia il presentimento che l’uomo sta sospeso nei suoi sogni su qualcosa di spietato, avido, insaziabile e, per così dire, sul dorso di una tigre. In una tale costellazione, da quale parte del mondo sorgerà mai l’impulso verso la verità?»

– Friedrich Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale (in La filosofia nell’epoca tragica dei greci e scritti 1870-1873, Adelphi, 1991, p. 229, tr. it. di G. Colli)

2 giugno 2019

Montaigne: il nostro agire è un altro sognare, e la nostra veglia una specie di sonno?

«Quelli che hanno paragonato la nostra vita a un sogno, hanno avuto ragione, forse più di quanto pensassero. Quando sogniamo, la nostra anima vive, agisce, esercita tutte le sue facoltà, né più né meno di quando è sveglia. Ma se le esercita più debolmente e oscuramente, non è certo di tanto che vi sia differenza come dalla notte a una luce viva. Piuttosto come dalla notte all’ombra. Là dorme, qui sonnecchia. Più e meno. Sono sempre tenebre, e tenebre cimmerie. Noi vegliamo dormendo, e vegliando dormiamo.
Io non vedo tanto chiaro nel sonno. Ma quanto al vegliare, non lo trovo mai abbastanza netto e senza nubi. Inoltre il sonno nella sua profondità addormenta talvolta i sogni. Ma il nostro vegliare non è mai tanto sveglio da eliminare e dissipare del tutto i vaneggiamenti: che sono i sogni di quelli che sono svegli, e peggio che sogni.
Dato che la nostra ragione e la nostra anima accolgono le fantasie e le opinioni che nascono in esse dormendo, e danno autorità alle azioni dei nostri sogni allo stesso modo che a quelle del giorno, perché non dovremmo domandarci se il nostro pensare e il nostro agire non sia un altro sognare, e la nostra veglia una specie di sonno?»

– M. De Montaigne, Les Essais, II, XII. Trad. it. di F. Garavini (in M. De Montaigne, Saggi, a cura di F. Garavini e A. Tournon, Bompiani 2018, p.1103)

4 aprile 2019

Schopenhauer: l’espressione temporale del mio essere sovratemporale

«Quella consapevolezza di un passato infinito; questo stupore su ciò che è l’unico che non posso perdere d’occhio in nessun momento, il presente; entrambe le cose sono illusione, o piuttosto sono l’espressione temporale del mio essere sovratemporale.»

– Arthur Schopenhauer, "I manoscritti giovanili. 1804-1818" (a cura di S. Barbera, Adelphi, Milano, 1996, n. 22, p. 20)

17 marzo 2019

Lovecraft: Tutto è uguale e nulla vale la pena di un serio pensiero

«In un universo senza scopo, tutto è uguale e nulla vale la pena di un serio pensiero. Non ci resta che cogliere ciò che preferiamo e sorridere, rendendoci conto che dove non esistono autentiche direzioni l'una vale l'altra. Ed è meglio non cadere nell'assurdo eccitandosi o dandosi alla violenza, alle aberrazioni e ai comportamenti antisociali a causa di qualche illusoria sciocchezza. Nulla è importante, ma forse è più confortevole mantenere la calma e non interferire con gli altri.»

– H. P. Lovecraft, da "Lettere dall'altrove: epistolario 1915-1937", a cura di Giuseppe Lippi, Mondadori, 1993

23 novembre 2018

Seneca: Ti vuoi render conto che sei un bersaglio eretto per tutti i colpi?

«Ti vuoi render conto che sei un bersaglio eretto per tutti i colpi e che quei dardi, che hanno colto altri attorno a te, erano diretti a te? Compòrtati come se andassi, quasi inerme, all'assalto d'un muro o d'un caposaldo presidiato da molti nemici, su una china ripida; aspèttati la ferita e pensa che quei sassi, frecce, giavellotti, che ti passano sopra la testa, erano stati scagliati contro te. Ed ogni volta che uno cade, al tuo fianco o dietro di te, grida: “Non mi coglierai di sorpresa, o Fortuna, non riuscirai a schiacciarmi, perché imprevidente o spensierato. So che cosa prepari: hai colpito un altro, ma miravi a me”.»

– Lucio Anneo Seneca, "Consolazione a Marcia", IX (L'uomo non sa vedere nel dolore una realtà quotidiana), tr .it. di Monica Natali

22 settembre 2018

Calvino: Il diavolo oggi è l'approssimativo

«Il diavolo oggi è l'approssimativo. Per diavolo intendo la negatività senza riscatto, da cui non può venir nessun bene. Nei discorsi approssimativi, nelle genericità, nell'imprecisione di pensiero e di linguaggio, specie se accompagnati da sicumera e petulanza, possiamo riconoscere il diavolo come nemico della chiarezza, sia interiore sia nei rapporti con gli altri, il diavolo come personificazione della mistificazione e dell'automistificazione. Dico l'approssimativo, non il complicato; quando le cose non sono semplici, non sono chiare, pretendere la chiarezza, la semplificazione a tutti i costi, è faciloneria, e proprio questa pretesa obbliga i discorsi a diventare generici, cioè menzogneri. Invece lo sforzo di cercare di pensare e d'esprimersi con la massima precisione possibile proprio di fronte alle cose più complesse è l'unico atteggiamento onesto e utile. Riuscire a definire i propri dubbi è molto più concreto che qualsiasi affermazione perentoria le cui fondamenta si basano sul vuoto, sulla ripetizione di parole il cui significato si è logorato per il troppo uso.»

– Italo Calvino, Una pietra sopra, Einaudi, 1980 (da: La Domenica del Corriere, marzo 1978, risposta a una "inchiesta sul diavolo oggi")

5 settembre 2018

Leopardi: Le opere di genio e lo spettacolo della nullità che consola e ingrandisce l'anima

«Hanno questo di proprio le opere di genio, che, quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le piú terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande, che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggimento della vita o nelle piú acerbe e mortifere disgrazie [...], servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo; e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta. E cosí quello che veduto nella realtà delle cose accora e uccide l’anima, veduto nell’imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio [...], apre il cuore e ravviva. Tant’é, siccome l’autore che descriveva e sentiva cosí fortemente il vano delle illusioni, pur conservava un gran fondo d’illusione, e ne dava una gran prova col descrivere cosí studiosamente la loro vanità [...], nello stesso modo il lettore, quantunque disingannato e per se stesso e per la lettura, pur è tratto dall’autore in quello stesso inganno e illusione nascosta ne’ piú intimi recessi dell’animo ch’egli provava. E lo stesso conoscere l’irreparabile vanità e falsità di ogni bello e di ogni grande è una certa bellezza e grandezza che riempie l’anima, quando questa conoscenza si trova nelle opere di genio. E lo stesso spettacolo della nullità è una cosa in queste opere, che par che ingrandisca l’anima del lettore, la innalzi e la soddisfaccia di se stessa e della propria disperazione (gran cosa e certa madre di piacere e di entusiasmo e magistrale effetto della poesia, quando giunge a fare che il lettore acquisti maggior concetto di se e delle sue disgrazie e del suo stesso abbattimento e annichilamento di spirito).»

– Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri (#259/61, ottobre 1820)



Confrontare con Ligotti, qui:

«Questa, quindi, è l'estrema, cioè unica, consolazione: che qualcuno condivida parte del nostro sentire e da quello abbia realizzato un'opera d'arte, e che noi si possegga l'intuizione, la sensibilità e (che ci piaccia o no) quel peculiare insieme di esperienze per apprezzarla. Incredibile da dire, la consolazione dell'orrore nell'arte è che in realtà intensifica il nostro panico, lo amplifica sulla cassa di risonanza dei nostri cuori sventrati dall'orrore, porta il terrore al massimo volume, raggiungendo quella perfetta e assordante ampiezza che ci può far danzare al ritmo della bizzarra musica della nostra stessa sventura.»



O, per dirla con Nietzsche:

«L’arte come la redenzione di chi sa — di colui che vede il carattere terribile ed enigmatico dell’esistenza, di chi vuole vederlo, di chi conosce tragicamente.»

23 agosto 2018

Cioran: lo scettico coerente, ostinato, questo morto-vivente

«Poiché il dubbio si rivela incompatibile con la vita, lo scettico coerente, ostinato, questo morto-vivente, termina la sua carriera con una disfatta che non ha equivalenti in nessun’altra avventura intellettuale. Furente per aver cercato la singolarità e per esservisi compiaciuto, egli aspirerà all’ombra, all’anonimato: e tutto questo, paradosso dei più sconcertanti, proprio nel momento in cui non sente più alcuna affinità con niente e nessuno. Modellarsi sulla massa è tutto ciò che auspica a questo punto del suo tracollo in cui riduca la saggezza al conformismo e la salvezza all’illusione consapevole, all’illusione postulata, in altre parole all’accettazione delle apparenze in quanto tali. Ma egli scorda che le apparenze non sono una risorsa se non quando si è tanto obnubilati da equipararle a delle realtà, quando si beneficia dell’illusione ingenua, dell’illusione che ignora se stessa, di quella appunto che è appannaggio degli altri e di cui lui è il solo a non possedere il segreto. Invece di rassegnarsi, si metterà – proprio lui, il nemico dell’impostura in filosofia – a barare nella vita, persuaso che a forza di dissimulazioni e di frodi riuscirà a non distinguersi dal resto dei mortali, che cercherà inutilmente di imitare, visto che ogni atto esige da lui una lotta contro i mille motivi che ha per non compierlo. Il suo gesto più infimo sarà preparato, sarà il risultato di una tensione e di una strategia, come se dovesse prendere d’assalto ciascun istante, non potendo calarvisi naturalmente. [...] Distaccato dalle proprie imprese e dai propri misfatti, è arrivato alla liberazione, ma a una liberazione senza salvezza, preludio all’esperienza integrale della vacuità, a cui è molto vicino quando, dopo aver dubitato dei propri dubbi, finisce col dubitare di sé, con lo sminuirsi e con l’odiarsi, col non credere più nella propria missione di distruttore. Una volta reciso l’ultimo legame, quello che lo teneva attaccato a se stesso, e senza il quale perfino l’autodistruzione è impossibile, egli cercherà rifugio nel vuoto primordiale, nel più profondo delle origini, prima di quella contesa fra la materia e il germe che si prolunga attraverso la serie degli esseri, dall’insetto al più tribolato dei mammiferi.»

– E.M. Cioran, La caduta nel tempo (tr. it. di T. Turolla, Adelphi, 1995, pp.53-55)

20 agosto 2018

Leopardi: L’esistenza non è per l’esistente

«L’uomo (e cosí gli altri animali) non nasce per goder della vita, ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che gli succedano, per conservarla. Né esso, né la vita, né oggetto alcuno di questo mondo è propriamente per lui, ma al contrario esso è tutto per la vita. Spaventevole, ma vera proposizione e conchiusione di tutta la metafisica. L’esistenza non è per l’esistente, non ha per suo fine l’esistente, né il bene dell’esistente; se anche egli vi prova alcun bene, ciò è un puro caso: l’esistente è per l’esistenza, tutto per l’esistenza, questa è il suo puro fine reale. Gli esistenti esistono perché si esista, l’individuo esistente nasce ed esiste perché si continui ad esistere e l’esistenza si conservi in lui e dopo di lui. Tutto ciò è manifesto dal vedere che il vero e solo fine della natura è la conservazione delle specie, e non la conservazione né la felicità degl’individui; la qual felicità non esiste neppur punto al mondo, né per gl’individui né per la specie. Da ciò necessariamente si dee venire in ultimo grado alla generale, sommaria, suprema e terribile conclusione detta di sopra.»

– Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, 11 marzo 1826

13 agosto 2018

Leopardi: la ragione pura, priva di distrazione e di dimenticanza, porta alla pazzia

«E qui voglio notare come la ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consistere quello dell’uomo, sia miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla stessa saviezza, che par tutta consistere nell’uso intero della ragione. Perché chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla verissimo e certissimo delle cose, in maniera che la successione e varietà degli oggetti e dei casi non avesse forza di distorlo da questo pensiero, sarebbe pazzo assolutamente e per ciò solo [...].
E pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la piú ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e continua saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli. Da ciò si vede come la saviezza comunemente intesa, e che possa giovare in questa vita, sia piú vicina alla natura che alla ragione, stando fra ambedue e non mai, come si dice volgarmente, con questa sola, e come essa ragione pura e senza mescolanza, sia fonte immediata e per sua natura di assoluta e necessaria pazzia.»

– Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri (#104, gennaio 1820)

12 agosto 2018

Pessoa: Demogorgone (quale carezza orribile e fredda mi sfiora gli occhi chiusi?)

“Nella via piena di sole vago case immote e gente che cammina.
Mi fredda una tristezza colma di paura.
Sento dentro un avvenimento al di là delle facciate e dei movimenti.

No, no, questo no!
Tutto salvo sapere cos’è il Mistero!
Superficie dell’Universo, o Palpebre Calate, non vi sollevate mai!
Lo sguardo della Verità Finale non dev’essere sopportabile!

Lasciatemi vivere senza sapere nulla, e morire senza venire a sapere nulla!
La ragione che ci sia essere, che ci siano esseri, che ci sia tutto,
deve portare una follia più grande degli spazi tra le anime e le stelle.

No, no, la verità no! Lasciatemi queste case e questa gente...
Quale carezza orribile e fredda mi sfiora gli occhi chiusi?
Non li voglio aprire da vivo! O verità, dimenticati di me!”


– Fernando Pessoa, DEMOGORGONE

10 agosto 2018

Pessoa: Il tedio

«In me il tedio è frequente, ma, che io sappia, non obbedisce a regole di apparizione. Mi succede di passare senza tedio una stanca domenica; posso esserne coperto all’improvviso, come da una nuvola, mentre lavoro alacremente. Non riesco a metterlo in rapporto con la salute o con la mancanza di salute; non riesco a conoscerlo come un prodotto di cause che appartengono al lato conosciuto di me stesso.
Dire che è un’angustia metafisica travestita, che è una grande delusione incognita, che è una poesia sorda dell’anima che si affaccia annoiata dalla finestra della vita: dire questo, o una cosa analoga, può colorare il tedio, come un bambino colora un disegno sorpassando e cancellandone i contorni, ma mi porta soltanto un suono di parole che risuona nei sotterranei del pensiero.
Il tedio... Pensare senza che si pensi, con la stanchezza di pensare; sentire senza che si senta, con l’angoscia del sentire; non volere senza che non si voglia, con la nausea di non volere: tutto questo sta nel tedio senza che ciò sia il tedio, e del tedio è soltanto una parafrasi o una traslazione. Consiste in una sensazione diretta, come se sopra il fossato del castello dell’anima si alzasse il ponte levatoio e fra il castello e le terre circostanti restasse il poterle guardare senza poterle percorrere. È un isolamento di noi in noi stessi, ma un isolamento dove ciò che separa è stagnante come lo siamo noi: acqua sporca che circonda la nostra impossibilità di capire.
Il tedio... Soffrire senza sofferenza, volere senza volontà, pensare senza raziocinio... [...]
Il tedio... Eppure io sono un uomo che lavora. Assolvo a quello che i moralisti chiamerebbero il dovere sociale. Assolvo a questo dovere, o a questo fato, senza grande applicazione o negligenza. Eppure, sia mentre lavoro che mentre riposo (riposo che, secondo gli stessi moralisti, mi spetta e deve aggradarmi) il mio spirito trabocca di un fiele di inerzia, e sono stanco, non del lavoro o del riposo, ma di me.
Perché di me, visto che non pensavo a me? Di cosa altro mai, visto che non pensavo a niente? È forse il mistero dell’universo che lambisce il mio ozio o il mio libro della contabilità? È il dolore universale di vivere che si concretizza all’improvviso nella mia anima medianica? Ma perché nobilitare tanto una persona che come me non conosce neppure se stessa? È una sensazione di vuoto, una fame senza appetito, nobile quanto i riflessi dei nervi dello stomaco, causati dalle troppe sigarette o dalla cattiva digestione.
»

– Fernando Pessoa, Il libro dell'inquietudine, 1.12.1931
(tr. it. di Maria José de Lancastre e Antonio Tabucchi, Feltrinelli)

24 luglio 2018

Cioran: l’astrazione, le sonorità senza contenuto, prolisse e ridondanti, che ci impediscono di sprofondare

«Se, per caso o per miracolo, le parole svanissero, sprofonderemmo in un’angoscia e in un’ebetudine intollerabili. Questo mutismo improvviso ci esporrebbe al supplizio più crudele. È l’uso del concetto che ci rende padroni dei nostri terrori. Noi diciamo: la Morte- e questa astrazione ci dispensa dal percepirne l’immensità e l’orrore. Battezzando le cose e gli eventi, eludiamo l’Inesplicabile: l’attività dello spirito è un imbroglio salutare, un gioco di prestigio; ci permette di circolare dentro una realtà addolcita, confortante e inesatta. Imparare a maneggiare i concetti- disimparare a guardare le cose... La riflessione nacque in un giorno di fuga; la pompa verbale ne fu la conseguenza. Ma quando si ritorna a sé si è soli- senza la compagnia delle parole- si riscopre l’universo privo di qualificazioni, l’oggetto puro, l’evento nudo: dove attingere l’audacia di affrontarli? Non si specula più sulla Morte, si è la morte; anziché decorare la vita e assegnarle degli scopi, le si toglie ogni ornamento e la si riduce al suo giusto significato: un eufemismo del Male. Le grandi parole: destino, sfortuna, sventura, si spogliano del loro splendore, ed è allora che si scorge la creatura alle prese con organi deboli, schiacciata da una materia prostrata e attonita. Togliete all’uomo la menzogna dell’Infelicità, dategli il potere di guardare dietro questo vocabolo: non potrebbe sopportare nemmeno per un istante la sua infelicità. Sono l’astrazione, le sonorità senza contenuto, prolisse e ridondanti, che gli hanno impedito di sprofondare.
[...]
È fin troppo naturale pensare che l’uomo, stanco delle parole, stremato dal ripetersi insulso dei tempi, sbattezzerà le cose e getterà i loro nomi, insieme al proprio, in un grande autodafé in cui le speranze saranno inghiottite. Stiamo tutti correndo verso questo modello finale, verso l’uomo muto e nudo...»

– E.M. Cioran, Sommario di decomposizione, tr. it. di M. Rigoni e T. Turolla, Adelphi, 1996, pp.156-157