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7 marzo 2022

Contro il putinismo e la Russia putiniana, senza se e senza ma

Stabilire un qualsiasi parallelo attuale tra Russia e Nato è come sostenere in tempo di pandemia che i vaccini anti-covid sono pericolosi quanto la malattia: vuol dire, cioè, avere disprezzo dei fatti.
Se è il momento di criticare l'Occidente, non lo è per vergogna delle sue libertà (sociali, politiche ed anche economiche, prendendo nel pacchetto tutti gli squilibri e i difetti che conosciamo) ma proprio per gli impulsi di putinismo che ha al suo interno.
La crisi russo-ucraina è un'occasione che la storia ci offre per risolvere le contraddizioni delle nostre democrazie liberali e progredire verso una vera integrazione transnazionale, prima di tutto inter-europea.
Basta con i paesi, i popoli, le patrie e i patrioti.
Basta con i freni alle nuove libertà sociali e con i clericalismi.
Basta con demagoghi e buffoni che diffondono l'odio e l'illusoria seduzione delle maniere forti.
Basta con qualsivoglia simpatia o appoggio verso chiunque queste maniere forti le usi.
Poi, se vorremo, ci dedicheremo anche a mitigare le solitudini, le alienazioni, gli squilibri socio-economici delle nostre vite da occidentali. Ma prima è necessario debellare ogni incrostazione illiberale e nazional-populista ovunque questa si manifesti: e non c'è maniera migliore di manifestare avversione per le aberrazioni causate dall'economia liberal-capitalista che accettare una riduzione del nostro tenore di vita e dei nostri lussi che da questo potrebbe conseguire.

Gianni D'Anna, 7 marzo 2022

12 ottobre 2018

Il Papa e l'aborto delle facoltà razionali

Le parole del Papa sull'aborto ("è come affittare un sicario"), come tante altre su argomenti che fanno meno clamore e che si fa finta di non sentire, arrivano come un'ennesima sveglia per tutti coloro che anche da posizioni progressiste si ostinano ad esprimere ammirazione per il personaggio.
Il fatto è che la religione, in questa recente stagione in cui i nuovi mezzi di comunicazione hanno portato più che mai alla ribalta le fake news, i complottismi, le pseudoscienze, l'idiozia in generale, rischia al confronto di sembrare qualcosa per menti raffinate (nei suoi aspetti teologici e filosofici, più che quelli legati alla superstizione popolare) o, quantomeno, tanto percepiamo grave la situazione dell'intelletto collettivo che si può cadere nella tentazione di rivalutarla come male minore rispetto ai tanti altri.
Invece non dobbiamo mai dimenticarci che la religione è la prima è più grande fake news di tutte, e il pensiero religioso è uno dei principali agenti che spianano la strada all'irrazionalità e al cattivo uso delle facoltà cognitive.
E no, ribadiamolo fino allo sfinimento, un feto non equivale a un essere umano, e un embrione ancor di meno; soltanto chi ragiona con i dogmi, e con le credenze metafisiche, può sostenere tale equivalenza.
E no, la vita non è un dono, ma è un accidente del caso; e non è detto che valga la pena di essere vissuta a tutti i costi e in tutte le condizioni.
E no, il denaro, il potere, il successo non sono "idoli" più di quanto non lo siano l'amore, l'altruismo, l'attaccamento alla vita; sono tutte illusioni che ci aiutano a vivere, a trovare delle ragioni per passare il tempo; e la vera via per il rispetto del prossimo passa per il riconoscimento di queste illusioni (l'esistenza dell'anima, il valore intrinseco della vita, l'amore disinteressato), perché siamo tutti nella stessa barca, gettati in questa esistenza, e non possiamo che aiutarci tutti a vicenda per fare in modo di generare meno sofferenza possibile, ma finché permetteremo alle fake news del pensiero campato per aria di dirottare le nostre facoltà cognitive ci renderemo impossibile riuscire in questo compito.


Gianni D'Anna, 11 ottobre 2018

2 ottobre 2018

Reddito di cittadinanza, disprezzo delle parole, e conservatorismo senza uscita

Reddito di cittadinanza, finché era sulla bocca di pochi, è sempre stato sinonimo di reddito di base incondizionato (o UBI, dall'inglese universal basic income). Lo scopo del basic income, in un'epoca in cui il lavoro sempre più scarseggia e diminuisce di qualità, è (guarda un po') separare il reddito dal lavoro.
Questo perché (tralasciando i benefici economici che pure sono ipotizzabili) in un mondo in cui si è sempre più attenti ai diritti umani e al benessere di tutti gli individui, sembra doveroso liberare le persone dal ricatto "o accetti di fare qualsiasi lavoro senza avere troppe pretese o crepi di fame".
Ora, lo scintillante nuovo significato che l'attuale governo ha dato al concetto è evidentemente tutt'altro. E benché siamo abituati al disprezzo delle parole e del reale significato delle cose, l'abitudine non ci deve far desistere dall'esprimere tutto il nostro sconcerto anche in questo caso. E questo scempio è tanto più odioso tanto più si pensa a come il travisamento sia avvenuto per piegarsi alla più mediocre demagogia: perché "non diamo dei soldi per stare sul divano".
È qui che l'anima conservatrice, anche di quella parte del governo che taluni speravano dotata di qualche afflato progressista (anche se "destra e sinistra sono concetti superati", ci mancherebbe), è venuta fuori, senza alcuna possibilità di speranza.
E no, la "pretesa", come dovrebbe essere ovvio, non è ricevere dei soldi per stare sul divano, ma è di non finire a vivere sulla strada e senza cibo nell'attesa che il "mercato" produca lavoro per tutti, non si sa come; forse trovando un altro pianeta dopo che, a breve, avremo finito di consumare l'unico di cui disponiamo; o forse facendoci diventare tutti fattorini comandati da un'app.
E, in tutto questo, l'opposizione parla di misura "assistenzialista"; invece di rilanciare con un vero reddito di cittadinanza, invece di proporre una nuova visione davvero progressista, va ancora più a destra (e non ce ne stupiamo).


Gianni D'Anna, 2 ottobre 2018

22 aprile 2018

Piketty: la contesa è tra sinistra bramina e destra dei mercanti (rassegna)

- www.lastampa.it/2018/04/19/cultura/piketty-ora-la-contesa-tra-sinistra-bramina-e-destra-dei-mercanti

La Stampa: Piketty, ora la contesa è tra sinistra bramina e destra dei mercanti (di Stefano lepri)

Occorre "una nuova sintesi tra egualitarismo e internazionalismo".

«La soglia che segna il mutamento, secondo lo studioso francese, è il momento in cui il 10% più istruito della popolazione comincia a votare più a sinistra del restante 90%. Secondo i dati da lui raccolti, Usa e Francia l’hanno varcata durante la seconda metà degli Anni 60 (il Sessantotto potrebbe entrarci qualcosa), la Gran Bretagna durante gli Anni 80. Dunque ben prima della globalizzazione e dell’afflusso massiccio di immigrati si indebolivano le ragioni classiste del voto a sinistra. [...]
Quanto la globalizzazione abbia accelerato la tendenza già presente, avverte Piketty, lo potrà dire l’estensione delle ricerche ad altri Paesi. Certo nella spaccatura di oggi – trasversale a quella destra/sinistra – tra chi sostiene l’apertura al mondo e chi vuole ripiegare sulle identità e sulla sovranità nazionale, il grado di istruzione conta assai. Negli Usa vota per il Partito democratico il 51% di chi ha una laurea breve, il 70% dei laureati ordinari e il 75% di quelli con diploma di terzo ciclo; nel 1948 erano nell’insieme il 20%. I francesi 60 anni fa votavano a sinistra per il 38% se laureati, per il 57% se con licenza elementare o meno; ora al contrario circa 60% i primi, 45% i secondi.
Piketty ha guadagnato fama documentando che le disuguaglianze nei Paesi avanzati sono parecchio cresciute negli ultimi due o tre decenni. Ma perché, si interroga ora, al contrario la gente se ne preoccupa di meno? [...]
ll mercato globale sembra arricchire una minoranza. Tuttavia l’azione dello Stato, se guidata dalla sinistra, può apparire vantaggiosa solo a una differente élite. Di qui il populismo. In Francia, una buona quota del 51% ostile ai ricchi vota Marine Le Pen. Ovunque è in voga la polemica contro gli "esperti", anche quando non collegabili alla sinistra, come la Banca d’Inghilterra a proposito della Brexit.»

4 febbraio 2018

Tutti i mori d'Italia (e le piccole Alabama ante litteram) (rassegna)

- ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2018/01/21/tutti-i-mori-ditalia52.html

Repubblica: Tutti i mori d'Italia (di Igiaba Scego)

«È chiaro che la presenza africana era legata alla schiavitù. In quei tempi, parliamo del Quattrocento-Cinquecento-Seicento, la schiavitù era reciproca e interessava le due sponde del Mediterraneo. Come ben scrive Salvatore Bono in Schiavi. Una storia mediterranea (XVI- XIX secolo) (Il Mulino) i cristiani venivano imprigionati nelle coste del Nord Africa e i musulmani (e non solo loro) in Europa. Trapani per esempio era un grande mercato di schiavi. E la Sicilia interessata da una vasta coltivazione di canna da zucchero usava nel Quattrocento manodopera schiavile, soprattutto dall'Africa subsahariana, almeno fino a che è durato il monopolio andato in crisi con la "scoperta" dell'America. Una Sicilia, ma anche una Puglia, una Calabria e soprattutto una Napoli (la città con più schiavi in Italia) che erano delle piccole Alabama ante litteram. Ma c'era anche la schiavitù al femminile, una compravendita serrata soprattutto di schiave greche e circasse in zone come la Liguria. La maggior parte del mercato però era costituito soprattutto da turchi e maghrebini che ingrossavano le fila degli uomini atti al remo nelle galere in molte città portuali, Livorno in testa. [...]
Di fatto la presenza degli afrodiscendenti era reale nella penisola. Così reale che alcuni arrivarono anche nel cuore dei Medici. Alessandro de' Medici, destinato a diventare nel Cinquecento duca di Firenze, era di fatto anche lui nero a metà, padre mediceo e madre schiava conosciuta con il nome di Simonetta da Collevecchio. Di lui ci rimangono numerosi ritratti. Dal Pontormo al Bronzino, dal Vasari all'Allori.
Basterebbe solo studiare un po' la storia, in Italia forse più che altrove, per capire che siamo di fatto tutti mescolati e non da oggi. E che nel famoso sangue italiano, quello dello ius sanguinis che qualcuno contrappone allo ius soli, scorre da parecchio tempo sangue africano.»

28 gennaio 2018

La grande diseguaglianza della società servile (rassegna)

- ilmanifesto.it/la-grande-diseguaglianza-della-societa-servile/

il Manifesto: La grande diseguaglianza della società servile (di Marco Revelli)


«non si limita a dirlo con l’aridità delle statistiche, confronta anche le vite dei protagonisti: quella, per esempio, di Amancio Ortega (il quarto nella classifica dei più ricchi), padrone di Zara, i cui profitti sono stati pari a un miliardo e 300 milioni di dollari, e quella di Anju che in Bangladesh cuce vestiti per lui, 12 ore al giorno, per 900 dollari all’anno (quasi 1 milione e mezzo di volte in meno) e che spesso deve saltare il pasto.

È questa la forza del rapporto Oxfam di quest’anno: che non si limita a guardare il mondo sul suo lato “in alto” – a descriverne il luminoso polo della ricchezza -, ma di misurarlo anche “in basso”. Di rivelarci la condizione miserabile e oscura del mondo del lavoro, dove uno su tre è un working poor, un lavoratore povero, in particolar modo una lavoratrice povera. E dove in 40 milioni lavorano in “condizione di schiavitù” o di “lavoro forzato” (secondo l’ILO “i lavoratori forzati hanno prodotto alcuni dei cibi che mangiamo e gli abiti che indossiamo, e hanno pulito gli edifici in cui molti di noi vivono o lavorano”).

Il sistema economico globale, plasmato sui dogmi del neo-liberismo – l’unico dogma ideologico sopravvissuto – si conferma così come quella maga-macchina globale (descritta a suo tempo perfettamente da Luciano Gallino) che mentre accumula a un polo una concentrazione disumana di ricchezza produce al polo opposto disgregazione sociale e devastazione politica (consumo di vita e consumo di democrazia). Allungando all’estremo le società, espandendo all’infinito i privilegi dei pochi, anzi pochissimi, e depauperando gli altri, erode alla radice le condizioni stesse della democrazia. La svuota alla base, cancellando il meccanismo della cittadinanza stessa: da società “democratiche” che eravamo diventati (di una democrazia incompiuta, parziale, manchevole, ma almeno fondata su un simulacro di eguaglianza) regrediamo a società servili, dove tra Signore e Servo passa una distanza assoluta, e dove al libero rapporto di partecipazione si sostituisce quello di fedeltà e di protezione. O, al contrario, di estraneità, di rabbia e di vendetta: è, appunto, il contesto in cui la variante populista e quella astensionista si intrecciano e si potenziano a vicenda, come forme attuali della politica nell’epoca dell’asocialità.

In realtà nessuno dei suggerimenti che il Rapporto avanza figura nell’agenda (quella vera, non gli specchietti per le allodole) dei governi di ogni colore e continente»

7 gennaio 2018

Lo straniero migrante come figura abissale: La sovversione di coabitare il mondo (rassegna)

- ilmanifesto.it/donatella-di-cesare-la-sovversione-di-coabitare-il-mondo

il manifesto: Donatella Di Cesare, la sovversione di coabitare il mondo (di Roberto Ciccarelli)

«IL MIGRANTE, in quanto straniero, è una figura abissale perché rivela che l’estraneo non è solo l’altro da me, ma è quello che abita in me. Questa esperienza è stata definita da Freud "perturbante": è ciò che turba l’ordine dell’Io, mostrando l’inquietudine più grande. L’Io non ha proprietà, una terra a cui appartenere, una coscienza a cui rimettere i suoi peccati, ma è un altro ed è straniero a se stesso. È Unheimlich, un essere-senza-casa. Il migrante mette a nudo il mito dell’identità autoctona, la finzione su cui è fondata la sovranità, il valore che lo Stato difende in nome della "sicurezza". Se l’Io è un altro, scriveva Rimbaud, allora il Sé immobile crolla. Un esito inaccettabile che lo Stato evita ricorrendo alla polizia e agli eserciti. Così la sovranità esibisce il suo ultimo potere: il monopolio della violenza.
[...]
LA CASA degli stranieri residenti non è lo Stato, né il mercato. È l’Internazionale. La riproposizione di questa categoria è una delle idee originali del libro. Di Cesare la intende come sinonimo di una "coabitazione oltre le appartenenze e la proprietà". In questa prospettiva l’Altro non è una metafisica, non è l’ospite, né può essere rinchiuso nelle contraddizioni del diritto di asilo. Se lo straniero siamo noi, allora il sé e l’altro non sono opposti, ma si implicano a vicenda. Lo straniero non è dunque l’opposto del cittadino, entrambi sono stranieri residenti in un’Internazionale slegata dal territorio e dalla cittadinanza, capace di trasformare la prima e di superare le aporie della seconda. La coabitazione indica un essere-in-comune, pratica una convergenza politica e mostra un altro modo di stare al mondo. Per gli anarchici e i comunisti la casa è il mondo intero. Per tutti gli altri l’Internazionale è la coabitazione della futura umanità con i prossimi e gli stranieri.»

5 dicembre 2017

L’origine della diseguaglianza (rassegna)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/l-origine-della-diseguaglianza-da-rousseau-al-paleolitico/

Micromega-online: L’origine della diseguaglianza. Da Rousseau al Paleolitico (di Cristina Cecchi)

«È contro la legge di natura, comunque vogliamo definirla, [...] che un pugno d’uomini rigurgiti di cose superflue, mentre la moltitudine affamata manca del necessario.»

[...]
«Ma furono i Sumeri (circa 3000-2000 a.C.) – i Sumeri, che da bambini ci insegnavano ad ammirare perché hanno inventato la scrittura, fermando l’infanzia onirica del mondo e dando avvio alla memoria dell’umanità: la storia è davvero la storia degli oppressori – il popolo che in età antica portò al massimo grado di raffinatezza il leviatano della diseguaglianza. I Sumeri per primi privatizzarono la terra; l’aristocrazia ereditaria – i cui figli nutrivano le fila di regnanti, funzionari d’alto livello, sacerdoti e giudici della corte suprema – aveva grandi possedimenti, terre lavorate per loro da gente comune e da schiavi; non c’erano quasi più terre che non fossero private. Il territorio venne diviso in province amministrative, ciascuna con un governatore, una capitale e una gerarchia di città, grandi villaggi e piccoli villaggi. Si perse l’egualitarismo tra unità territoriali – l’eguaglianza non è solo tra umano e umano, ma anche tra unità territoriale e unità territoriale – e vennero l’urbanizzazione e la divisione del lavoro modernamente intese.
[...]
Beninteso: non sono l’agricoltura e la vita stanziale – quindi un passaggio evolutivo di per sé neutro dal punto di vista della diseguaglianza – ad aver incrementato il livello di diseguaglianza nell’umanità e ad aver dato il la a tutti gli sviluppi successivi. L’agricoltura e la possibilità di accumulare sono stati solo il mezzo che (quel che Rousseau chiamava) l’amor proprio di alcuni – agenti umani che si sono battuti per avere maggiori privilegi rispetto ad altri che invece resistevano a questo processo – ha potuto sfruttare per ottenere privilegio sociale, dal quale poi è derivato il resto. E il resto è storia: può essere modificato.»

21 febbraio 2017

I bisogni autentici contro quelli fasulli e dannosi: una nuova Critica della vita quotidiana (rassegna)

il Manifesto, Le Monde diplomatique, 16 febbraio 2017: Di cosa abbiamo (davvero) bisogno (di Razmig Keucheyan)

«Con un colpo di genio, il capitalismo del dopoguerra è riuscito a riorientare la volontà di cambiamento verso l’insaziabile desiderio di consumare. Questo modello si scontra ormai con un limite invalicabile: l’esaurimento delle risorse naturali. Per immaginare un modo di vivere al tempo stesso soddisfacente e sostenibile, non basta rifiutare l’impero delle merci. Occorre prima di tutto riflettere su ciò di cui abbiamo bisogno.
[...]
Come distinguere i bisogni legittimi, che potranno essere soddisfatti nella società futura, dai bisogni egoisti e irragionevoli, che dovremo rinunciare a soddisfare? È la domanda che affronta il Manifeste négaWatt (Manifesto negaWatt), uno dei saggi di ecologia politica più stimolanti fra quelli di recente pubblicazione, scritto da specialisti dell’energia.
[...]
Affinché la popolazione accetti la transizione ecologica, le decisioni che la sottendono devono ottenere l’adesione generale. Stabilire una lista di bisogni autentici non ha nulla di facile e presuppone una continua deliberazione collettiva. Si tratta dunque di mettere in essere un meccanismo che parta dal basso, in grado di identificare democraticamente i bisogni ragionevoli.
[...]
L’adattamento delle società alla crisi ambientale presuppone una riorganizzazione da cima a fondo della vita quotidiana delle popolazioni. Ma questo non può avvenire senza mobilitarle, senza far leva sulle loro conoscenze e sul loro saper fare, e senza trasformare in un simile movimento le soggettività consumatrici. Dobbiamo dunque arrivare a una nuova "critica della vita quotidiana"; una critica elaborata in maniera collettiva.»

4 gennaio 2017

Illuminismo e diritto d'esistenza (rassegna)

- ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/12/19/quale-illuminismo-ragione-diritto-desistenza-e-movimenti-sociali

Micromega-online: Quale “Illuminismo”? Ragione, diritto d’esistenza e movimenti sociali (di Paolo Quintili)

«Affermò Robespierre: Nessuno ha il diritto di ammassare montagne di grano per trarne profitto, accanto al proprio simile che muore di fame. Qual è il primo scopo della società? Tener fermi i diritti imprescrittibili dell’uomo. E qual è il primo di questi diritti? Quello di esistere. La prima legge sociale è dunque quella che garantisce a tutti i membri della società i mezzi per esistere.»

7 febbraio 2016

Rassegna link, 7 febbraio 2016

- http://medium.com/basic-income/on-the-record-bernie-sanders-on-basic-income-de9162fb3b5c
Cosa pensa Bernie Sanders del reddito di base incondizionato?

- http://www.bbc.com/earth/story/20160202-how-bacteria-invented-gene-editing
L'editing genetico è molto più comune in natura di quello che si pensi e anzi ha radici molto antiche.

- http://thenexttech.startupitalia.eu/6243-20160204-argotec-startup-nasa
"Argotec, la startup torinese che ha conquistato la NASA con il suo micro-satellite. Ma dietro c’è molto di più. Ecco perché è un modello vincente."

- http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/cinzia-tromba/ecco-perche-ci-sono-stati-piu-morti-nel-2015/febbraio-2016
Ecco perché ci sono stati più morti nel 2015

25 giugno 2015

Thurgood Marshall: Non possiamo fare gli struzzi

«Non possiamo fare gli struzzi. La democrazia non può fiorire in mezzo alla paura. La libertà non può fiorire in mezzo all'odio. La giustizia non può mettere radici in mezzo alla rabbia. Dobbiamo dissentire dall'indifferenza. Dobbiamo dissentire dall'apatia. Dobbiamo dissentire dalla paura, l'odio e la sfiducia. Dobbiamo dissentire da una nazione che ha sepolto la testa sotto la sabbia, aspettando invano che i bisogni dei suoi poveri, i suoi anziani e i suoi malati scompaiano per miracolo. Dobbiamo dissentire da un governo che ha lasciato i suoi giovani senza lavoro, istruzione o speranza. Dobbiamo dissentire dalla povertà di visione e l'assenza di guida morale.»

– Thurgood Marshall, primo giudice afroamericano della Corte Suprema degli Stati Uniti, discorso del 4 luglio 1992 a Filadelfia (trad. mia)

23 luglio 2014

La vera ragione della settimana lavorativa di 40 ore (rassegna)

- businessinsider.com/the-real-reason-for-the-40-hour-workweek-2014-6

Business Insider: The real reason for the 40-hour workweek (di David Cain)

Buon pezzo sul legame profondo tra la settimana lavorativa di 40 ore e il più nefasto consumismo.

«La giornata lavorativa di otto ore conviene alle grandi imprese, non per la quantità di lavoro che le persone riescono a svolgere in otto ore (un impiegato d'ufficio medio lavora effettivamente per meno di tre ore su otto!) ma perché rende la gente fissata col comprare cose.
Far sì che il tempo libero rimanga scarso significa far sì che le persone paghino molto di più per i comfort, per le gratificazioni immediate, e per qualsiasi altra distrazione che possono comprare. E significa far sì che continuino a guardare la tv, e i suoi spot pubblicitari. E che rimangano prive di particolari aspirazioni al di fuori del lavoro.
Ci hanno condotto in una cultura che è stata progettata per mantenerci stanchi, inclini a indulgere in ogni nostra debolezza, disposti a pagare molto per comfort e divertimenti, e, soprattutto, genericamente insoddisfatti della nostra vita in modo che continuiamo a desiderare cose che non abbiamo. Compriamo tanto perché sembra che ci manchi sempre qualcosa.
Le economie occidentali, in particolare quella degli Stati Uniti, sono state costruite in maniera calcolata sull'appagamento dei piaceri, la dipendenza, e le spese inutili.
Riuscite ad immaginare cosa succederebbe se tutta l'America smettesse di comprare tante inutili cianfrusaglie che non aggiungono niente di effettivo valore alle nostre vite?
L'economia crollerebbe e non si riprenderebbe più.
Tutti i problemi ampiamente pubblicizzati dell'America, tra cui l'obesità, la depressione, l'inquinamento, e la corruzione sono il costo necessario per creare e mantenere un'economia da un trilione di dollari. Affinché l'economia rimanga "sana" l'America deve rimanere malata.
La cultura della giornata lavorativa di otto ore è lo strumento più potente a disposizione delle grandi imprese per mantenere le persone in questo stato di insoddisfazione dove la risposta ad ogni problema è quella di comprare qualcosa.»

(trad. mia)

25 settembre 2013

Ulrich Beck: Un nuovo individualismo che presupponga una dimensione cosmopolita (rassegna)

- www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/societa/2013/07/17/news/ulrich_beck_ci_salver_la_generazione_dei_giovani_colombo

Repubblica: Ulrich Beck: "Ci salverà la generazione dei giovani Colombo" (di Riccardo Staglianò)

«Per cominciare, al posto della solidarietà di classe è subentrato un "individualismo morale", ovvero un individualismo che, grazie al senso di connessione che ci danno le nuove tecnologie, si sente responsabile per gli altri, una volta percepiti come distanti. Un nuovo individualismo che presuppone una dimensione cosmopolita.
[...]
E infine la reinvenzione dello stato sociale su una base transnazionale, nel nostro caso europea. Solo così si possono dare risposte all'insicurezza economica, equindi esistenziale, delle nuove generazioni. Nessuna sinistra può dirsi tale senza farsi carico di questi punti.
[...]
Di certo si può dire che molte persone sono sempre più deluse dalla politica degli stati-nazione, quella che si preoccupa delle élite economiche.»

9 aprile 2013

Margaret Thatcher e la "rivincita" contro l'Illuminismo (rassegna)

- temi.repubblica.it/micromega-online/margaret-thatcher-la-donna-che-sfascio-una-civilta

Micromega-online: Margaret Thatcher, la donna che sfasciò una civiltà (di Pierfranco Pellizzetti, da MicroMega 2/2012)

«Il vero mutamento epocale sarebbe la presa di coscienza generale dei guai procurati alle nostre società dal thatcherismo; in sintonia con il reaganismo: la devastante ondata di idiozia prodotta dalla presa del potere da parte di mezze calzette politiche con le loro ideologie da quattro soldi»

«Il ciarpame di luoghi comuni degli avventori al pub, asceso a pensiero egemone, spirito del tempo; quel populismo middle class fino ad allora tenuto a bada dalla cultura operaia»

«Qualcuno ha parlato di “rivincita degli austriaci”, ovviamente contro John M. Keynes; al cui nome è legato il più grande esperimento di ingegneria costruttivistica coronato da successo della storia umana. In effetti, la vera rivincita conseguita da questi signori è quella contro il pensiero fondativo della saggezza dell’Occidente: l’Illuminismo, nelle sue varie riproposizioni storiche, inteso come governo del “ramo storto dell’umanità” secondo kantiano “uso pubblico della ragione”. Di fatto la (contro)rivoluzione (neo)liberista ha spalancato il vaso di Pandora del nuovo Oscurantismo, con il seguito delle disuguaglianze, fanatismi bellicisti e xenofobie varie che, mentre prospettavano “scontri di civiltà”, hanno determinato la crisi della (nostra) Civiltà»

2 aprile 2013

Comunismo, stato sociale... Abbiamo bisogno di nuove idee coraggiose (rassegna)

- www.theguardian.com/commentisfree/2013/apr/01/alternative-to-war-on-britains-poor

Guardian: Communism, welfare state – what's the next big idea? (di George Monbiot)

«Questo governo, la cui cattiva gestione dell'economia ha costretto tanti tra le braccia dello Stato, incolpa i malati, i disoccupati, i sottopagati di una crisi causata dalla elite spietata, e li punisce di conseguenza.

Quello cui stiamo assistendo è una guerra economica da parte dei ricchi contro i poveri.

Perché la maggioranza onesta accetta di essere governata da una minoranza brutale e antisociale? Parte del motivo è che la minoranza controlla la storia. Una larga porzione del popolo (tra cui molti di coloro che dipendono da essa) è stata convinta che la maggior parte dei destinatari della previdenza sociale sono truffatori dissoluti e irresponsabili. Nonostante tutto quello che è successo negli ultimi due anni, Rupert Murdoch, Lord Rothermere e gli altri baroni dei media sembrano ancora farla da padrone nel paese. La loro propaganda incessante, che fa uso di casi eccezionali e scioccanti per caratterizzare un'intera classe sociale, permane altamente efficace. Il "divide et impera" domina come non mai.

Ma ho cominciato a credere che ci sia sotto anche qualcosa di più profondo: e cioè che nella gran parte della popolazione permanga ancora l'eredità della schiavitù. Anche in una democrazia nominale come il Regno Unito, la maggioranza delle persone si trovava più o meno in schiavitù fino a poco più di un secolo fa: con salari da fame, licenziabili a volontà, minacciate di punizioni estreme se dissentivano, e prive di diritto di voto. Vivevano nella paura dell'autorità, e la paura è perdurata, tramandata attraverso le cinque o sei generazioni che sono passate e rinforzata da una insicurezza ora rinnovata, da una disuguaglianza che cresce a dismisura, e da politiche partigiane.

Qualsiasi movimento che cerchi di sfidare il potere delle elite ha bisogno di chiedersi che cosa serva per scuotere la gente fuori da questo stato. E la risposta sembra inevitabile: la speranza. Coloro che governano per conto dei miliardari possono essere minacciati solo quando confrontati con la forza di una idea di cambiamento.

La settimana scorsa ho fatto un piccolo sondaggio online, chiedendo alle persone di nominare delle idee portatrici di cambiamento. Le due più spesso menzionate sono state: imposta sul valore fondiario e reddito di cittadinanza.

Queste idee richiedono coraggio: il coraggio di affrontare il governo, l'opposizione, i plutocrati, i media, i sospetti di un elettorato diffidente. Ma senza proposte di questa portata la politica progressista è morta.»


(trad. mia)

30 gennaio 2013

La truffa del "merito" (rassegna)

- temi.repubblica.it/micromega-online/merito-eguaglianza/

Micromega-online: Merito? Eguaglianza! (di Alessandro Robecchi, da MicroMega 8/12)

«Parlare di merito senza parlare di uguaglianza, dunque, si configura come una truffa con destrezza. Truffa, perché il discorso contiene un oggettivo premio di maggioranza per chi già è favorito per posizione sociale, tradizione familiare, disponibilità economica. E destrezza perché si tenta di convincere chiunque sia appena poco più che totalmente imbecille che il farsi strada nel mondo dipende da lui soltanto, dalla sua capacità, dal suo merito e non dalla struttura della società, dai suoi meccanismi profondamente ingiusti.
In pratica, qualunque discorso sul merito che prescinda dal discorso dell’uguaglianza non è altro che un chiaro disegno conservatore, volto a conservare, appunto, gli equilibri esistenti.»

17 febbraio 2012

La libertà dal lavoro

La libertà come libertà dal lavoro, nella Grecia classica
[da: “Società senza lavoro – Per una nuova filosofia dell’occupazione”, Dominique Méda, 1997, Feltrinelli]
Ma la Grecia classica è andata ancora più avanti nel disprezzo per le attività lavorative. Attraverso i testi di Platone e di Aristotele, vediamo insediarsi un ideale di vita individuale e collettiva da cui il lavoro è escluso o quasi. La stessa struttura sociale greca ne è la prova: l’insieme dei compiti direttamente legati alla riproduzione materiale è in effetti assunto e svolto da schiavi […]. Tutta la filosofia greca è in effetti fondata sull’idea che la vera libertà, in altre parole ciò che permette all’uomo di agire secondo quanto vi è di più umano in lui, il logos, comincia dove la necessità finisce, una volta che i bisogni materiali siano stati soddisfatti. […] Aristotele lo afferma esplicitamente, in apertura della Metafisica: “Solo quando furono a loro tutti i mezzi indispensabili alla vita e quelli che procurano benessere e agiatezza, gli uomini incominciarono a darsi una tale sorta di indagine scientifica”. Questa disciplina, la filosofia appunto, è la sola scienza che sia una disciplina liberale, in quanto non la pratichiamo per altro che per se stessa: “Consideriamo tale scienza come la sola che sia libera, giacché essa soltanto esiste di per sé”. Sul versante opposto della sfera della libertà, che ci avvicina al divino, si dispiega la sfera della necessità, quella del lavoro, e soprattutto del ponos, del lavoro faticoso, delle funzioni degradanti, per essenza servili. Come si vede, la situazione del lavoro nella società greca si fonda in ultima analisi su un’idea – oggi parleremmo di “concezione” – dell’uomo che gli conferisce il suo senso pieno: l’uomo è un animale razionale e il suo compito è quello di sviluppare la ragione che lo fa uomo e che lo rende simile agli dei. Esercitare la ragione significa: sul piano teorico fare filosofia o attività scientifica, sul piano pratico agire secondo virtù, su quello politico essere un eccellente cittadino. In ogni caso significa utilizzare nel migliore dei modi le nostre facoltà, cosa che si può fare solo essendo liberi, cioè sviluppando attività che hanno un fine in se stesse e non fuori di sé. La vera vita è la vita oziosa, e divenire capaci di vivere una vita del genere è la meta dell’educazione. […] l’ozio greco non ha ovviamente nulla a che vedere con ciò che il termine designa ai giorni nostri.

Il tempo liberato
[da: “Tempo e lavoro – Storia, psicologia e nuove problematiche”, Pierenrico Andreoni, 2005, Mondadori]
Allora, uscendo dagli schemi della società fondata sul lavoro, la rivoluzione apportata dalla tecnologia ci dona la possibilità di redistribuire il tempo che la produttività ha liberato dal lavoro; esso è un tempo nuovo, di natura completamente diversa da quello che abbiamo conosciuto finora, perché è un tempo che ciascuno potrà “sottrarre al sistema” e rendere disponibile “per mille e una attività autodeterminate”. Esso […] non è più un tempo attribuito dal sistema, ma è un tempo scelto, autodeterminato da un atto volontario; non è più un tempo il cui contenuto è qualificato dal lavoro (studio per il lavoro, tempo libero dal lavoro, pensione dopo il lavoro) e dalla sua assenza, ma è un tempo in sé, vuoto di contenuto e proprio per questo potenzialmente aperto a tutti i contenuti che ciascuno voglia dargli. Il tempo libero, di svago, è ancora determinato dal lavoro, di cui costituisce la valvola di sfogo, serve a ricaricare le batterie per poi esser nuovamente efficienti sul lavoro; il tempo liberato, invece, sarebbe caratterizzato dalla libertà più pura, non determinato dall’organizzazione sociale, né dalla costrizione economica del lavoro.