2 ottobre 2018

Reddito di cittadinanza, disprezzo delle parole, e conservatorismo senza uscita

Reddito di cittadinanza, finché era sulla bocca di pochi, è sempre stato sinonimo di reddito di base incondizionato (o UBI, dall'inglese universal basic income). Lo scopo del basic income, in un'epoca in cui il lavoro sempre più scarseggia e diminuisce di qualità, è (guarda un po') separare il reddito dal lavoro.
Questo perché (tralasciando i benefici economici che pure sono ipotizzabili) in un mondo in cui si è sempre più attenti ai diritti umani e al benessere di tutti gli individui, sembra doveroso liberare le persone dal ricatto "o accetti di fare qualsiasi lavoro senza avere troppe pretese o crepi di fame".
Ora, lo scintillante nuovo significato che l'attuale governo ha dato al concetto è evidentemente tutt'altro. E benché siamo abituati al disprezzo delle parole e del reale significato delle cose, l'abitudine non ci deve far desistere dall'esprimere tutto il nostro sconcerto anche in questo caso. E questo scempio è tanto più odioso tanto più si pensa a come il travisamento sia avvenuto per piegarsi alla più mediocre demagogia: perché "non diamo dei soldi per stare sul divano".
È qui che l'anima conservatrice, anche di quella parte del governo che taluni speravano dotata di qualche afflato progressista (anche se "destra e sinistra sono concetti superati", ci mancherebbe), è venuta fuori, senza alcuna possibilità di speranza.
E no, la "pretesa", come dovrebbe essere ovvio, non è ricevere dei soldi per stare sul divano, ma è di non finire a vivere sulla strada e senza cibo nell'attesa che il neoliberismo produca lavoro per tutti, non si sa come; forse trovando un altro pianeta dopo che, a breve, avremo finito di consumare l'unico di cui disponiamo; o forse facendoci diventare tutti fattorini comandati da un'app.
E, in tutto questo, l'opposizione parla di misura "assistenzialista"; invece di rilanciare con un vero reddito di cittadinanza, invece di proporre una nuova visione davvero progressista, va ancora più a destra (e non ce ne stupiamo).


Gianni D'Anna, 2 ottobre 2018