12 settembre 2018

L'andazzo dei diminutivi (rassegna)

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Micromega-online: La lingua che cambia: l’andazzo del vezzo (di Nunzio La Fauci, 4 settembre 2018)

«È certo discutibile la celebre e provocatoria conclusione di Barthes che vuole la lingua “fascista”. Lo è meno l’osservazione che la fonda: è certo infatti che la lingua imponga più di quanto non impedisca di dire. Ed è sopra tale esigenza intrinseca di conformità comunicativa, priva per se stessa di implicazioni politiche, che il conformismo trova modo di crescere pericolosamente, ove non tenuto sotto controllo, anzitutto da ciascuno/a in se stesso/a. Non c’è infatti deriva sociolinguistica che non abbia una radice psicolinguistica o, come capita sia stato detto tra gli studiosi, non c’è fatto di “langue” che non prenda origine da una circostanza della “parole”.
Si è provato in esordio a ricordare i termini della questione dei vezzeggiativi e a rendere le forme di un tempo più evidenti di come non siano magari state o non siano nella memoria di chi ha ormai una certa età. Il vecchio sistema vigeva da secoli e si realizzava variamente. Per esemplificare, qui se ne è messo sotto gli occhi di chi legge solo uno, molto diffuso e rilevante. L’ipocoristico (così, in linguistica, si designa tecnicamente il vezzeggiativo) vi si produceva in funzione della sillaba accentata. Esso andava da lì in avanti, verso la fine del nome nella sua forma paradigmatica: “(Eleo)Nora”, “(Vinc)Enzo”, “(Do)Menico”, “(An)Tonio”, “(Gae)Tano”, “(Con)Cettina”, “(Ales)Sandro”, “(Elisa)Betta”, “(Gio)Vanni,” “(Ma)Tilde”, “(Lo)Renzo”, “(Cate)Rina”, “(Fran)Cesco”, “(Or)Lando”, “(Ro)Berto”, “(Rin)Aldo”, “(Ro)Sar(i)o”, “(Petro)Nilla” e così via.
Ai vecchi modi di produzione, ormai da parecchio tempo se ne è sovrapposto uno nuovo. L’enfasi sta sul principio del nome, sia o non sia accentata la sua prima sillaba. Se non lo è, l’accento vi si ritrae. Segue la seconda sillaba o un suo vestigio. La vocale vi si può infatti ridurre a una “i”: “Gabri(ele/ella)”, “Ele(onora)”, “Ale(ssio/a o ssandro/a)”, “Fede(rico/a)”, “Edo(ardo)”, “Marghi/e(rita)”, “Rob-i(-erto/a)”, “Vale(ntino/a o rio/a)”, “Franc-i(-esco/a)”, “Ferdi(nando/a)”, “Sabri(na)”, “Dani(ele)”, “Caro(-lina)”, “Simo(ne/a)”, “Samu(ele)”, “Tizi(ano/a)”, “Giuli(o/a o ano/a)”. Perfino “Àndri/e(a)”. Molti altri potrebbe aggiungerne chi legge, del resto. Il panorama onomastico italiano sta cambiando. Rischia quindi di cambiare la nazione linguistica italiana.
[...]
Comunque sia andata, il successo del nuovo sistema onomastico e il deperire dell'antico paiono al momento fuori discussione. E con il successo, non manca nell’ormai consolidata novità un sospetto di volgarità. Non c’è mutamento che non sia (etimologicamente) volgare e la volgarità è la condizione stessa del suo eventuale trionfo. La tendenza in effetti attraversa oggi ceti e ideologie, livelli culturali e identità geografiche: è un vezzo che interessa l’intera area italofona, insomma, diffondendovi quel vago tanfo di stupidità e d’infantilismo che si correla naturalmente con il debordare di un modo vezzeggiativo. “Vezzeggiare” è del resto verbo denominale da “vezzo”. E “vezzo”, come ‘abitudine’, è ciò che la trasmissione popolare ha fatto del latino “vĭtiu(m)” (“vizio” ne è invece il germoglio dotto: l’italiano è pieno di doppioni siffatti, che l’uso ha eventualmente specializzato nella designazione di cose diverse).»