19 giugno 2017

L'incorreggibile e disperata "absence" di Leopardi

«[...] perchè io non so e non ho saputo mai sopportare di esser creduto da più ch'io non sono, o atto a quello che io non so fare, permettetemi di soggiungere. La vostra idea dell'Hermite des Apennins, è opportunissima in sé. Ma perché questo buon Romito potesse flagellare i nostri costumi e le nostre istituzioni, converrebbe che prima di ritirarsi nel suo romitorio, fosse vissuto nel mondo, e avesse avuto parte non piccola e non accidentale nelle cose della società. Ora questo non è il caso mio. La mia vita, prima per necessità di circostanze e contro mia voglia, poi per inclinazione nata dall'abito convertito in natura e divenuto indelebile, è stata sempre, ed è, e sarà perpetuamente solitaria, anche in mezzo alla conversazione, nella quale, per dirlo all'inglese, io sono più 'absent' di quel che sarebbe un cieco e sordo. Questo vizio dell'absence è in me incorreggibile e disperato. [...] Da questa assuefazione e da questo carattere nasce naturalmente che gli uomini sono a' miei occhi quello che sono in natura, cioè una menomissima parte dell'universo, e che i miei rapporti con loro e i loro rapporti scambievoli non m'interessano punto, e non interessandomi, non gli osservo se non superficialissimamente. [...] Bensì sono assuefatto ad osservar di continuo me stesso, cioè l'uomo in sé, e similmente i suoi rapporti col resto della natura, dai quali, con tutta la mia solitudine, io non mi posso liberare. Tenete dunque per costante che la mia filosofia (se volete onorarla con questo nome) non è di quel genere che si apprezza ed è gradito in questo secolo; è bensì utile a me stesso, perché mi fa disprezzar la vita e considerar tutte le cose come chimere, e così mi aiuta a sopportar l'esistenza; ma non so quanto possa esser utile alla società, e convenire a chi debba scrivere per un Giornale. [...]»

– Giacomo Leopardi, Lettera a Giampietro Vieusseux, 4 marzo 1826