27 novembre 2016

Il deficit di immaginazione e la necessità di un serio ragionamento utopistico (rassegna)

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Prismo: Tornare all'utopia (di Valerio Mattioli)

«La tesi di Traub, per come esplicitata nel sottotitolo al pezzo, è che la vera sfida al giorno d’oggi non sia più destra vs. sinistra con tutto quello che ne consegue in termini di visione del mondo, diritti e politiche sociali, ma “the sane vs. the mindlessly angry”. L’equivalenza tra “angry” e “mindless” è qui sintomatica: sei arrabbiato? Allora vuol dire che sei stupido, quindi non hai titolo per discettare sulle cose del mondo. Non è esattamente questo il modo in cui la sinistra pretendeva a suo tempo di parlare ai diseredati, ai marginali e agli oppressi; eppure, è bene ricordarlo, questi ragionamenti provengono da ambienti intellettuali che si ritengono sinceramente democratici e, sapete com’è, liberal.
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il feticcio del “merito”, l’enfasi sul “mettersi in gioco”, il mantra dello “stare sul mercato”, l’affannosa sottolineatura dei vantaggi della “competitività”, l’ossessione per il “self-engagement”, sono tutti slogan che le sinistre (neo)liberali reiterano da talmente tanto tempo che abbiamo imparato a considerarli, più che dati acquisiti, poco meno che fatti di natura.
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per l’ennesima volta, There Is No Alternative: prepariamoci al declino e ai foschi panorami dello zeitgeist post-democratico, o tuttalpiù mettiamoci in fila per il primo posto che si libera per Marte. Non sono in fondo i tech titans che adesso vagheggiano di spedizioni interplanetarie gli eroi predestinati di quella generazione creativa e intraprendente che a gran voce ha reclamato il primato della meritocrazia, e per la quale “la vera lotta di classe è quella giovani contro vecchi”?
Questa rassegnazione pavloviana eternamente schiacciata sul presente, è il segno di tante cose assieme. Ma per quanto mi riguarda è innanzitutto il segno di un deficit di immaginazione. E cioè di una rinuncia a ipotizzare alternative – anche solo immaginarie – a un ordine che ineluttabile non lo è per niente. Ed è sua volta la spia di un’assenza che arrivati a questo punto comincia a farsi assordante: quella dell’utopia.
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Non credo sia azzardato suggerire che è anche per via di questa assenza che i populismi hanno infine occupato quel fantomatico “vuoto” lasciato in eredità da quello che Mark Fisher ha intelligentemente ribattezzato “realismo capitalista”.
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come ricorda Chris Jennings in un recente saggio intitolato Paradise Now: the Story of American Utopianism – “separate da un fine utopistico, persino le critiche sociali più incisive hanno il fiato corto”. Ed è ancora Jennings a lanciare un avvertimento che suona più che mai pertinente nelle settimane successive alle presidenziali USA: “Se non ci impegniamo in un serio ragionamento utopistico, le cose non faranno che peggiorare”.
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In un (prolisso) articolo di circa un anno fa, provavo a riassumere quali sono i temi che già ora fanno del futuro “un campo di battaglia”. Sono gli stessi che ricorrono in un altro saggio del 2016 intitolato non a caso Four Futures; scritto da Peter Frase, il testo esplora quattro plausibili scenari da qui ai prossimi decenni, e se da una parte prospetta concretissimi rischi di una distopia che conduce diritta all’eliminazione di chiunque non produca valore (e che suona un po’ come il sottotesto oscuro della cronaca di questi giorni), dall’altra introduce almeno uno scenario corrispondente in tutto e per tutto ai caratteri dell’utopia possibile.
Per Frase, esistono insomma le condizioni per cui in un futuro non troppo lontano potremmo trovarci in una condizione sia di abbondanza materiale, sia di uguaglianza e giustizia sociale. Sono condizioni che a questo punto dovremmo conoscere bene: una crescente automazione che privi di senso il dogma del lavoro; un reddito base per tutti; una generalizzata condivisione dei saperi e degli accessi; welfare gratuito; diritto all’ozio e alla pigrizia; fine di un’economia basata sullo sfruttamento di energie e risorse; e via di questo passo. È più o meno la stessa ricetta che nel 2015 veniva portata avanti da due testi molto discussi come Postcapitalismo di Paul Mason e Inventing the Future di Srnicek e Williams, e come loro Frase ci tiene a sottolineare che un futuro del genere non solo non è impossibile, ma è già in nuce in molti dei processi che quotidianamente abbiamo sotto gli occhi.
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La battaglia si svolge innanzitutto in termini di immaginario: il che non significa derubricare le ingiustizie e le paure che comunque segnano il presente. Significa però aprirle a una prospettiva nuova, che non si riduca al semplice rivendicazionismo della sinistra neoidentitaria, e che vada oltre l’onestamente un po’ parodistica autocritica delle élite progressiste deluse
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Può darsi davvero che da qui in avanti la contesa sarà tra le élite “che ne sanno” e i mindlessly angry, con le prime che si rifugeranno in un’isola autogalleggiante per sofisticati enterpreneur, e i secondi che si scanneranno in un pianeta la cui stessa sopravvivenza è tutta da verificare. Ma se quanto arriverà avrà i caratteri distopici delle post-democrazie trumpiane, sarà solo perché dall’altra parte per troppo tempo si è preferito battere sul tasto refresh anziché su quello riavvia. Anniversari a parte, è tempo di ricominciare a ipotizzare mappe, confini e cartografie di un’altra isola: quella che Tommaso Moro immaginò giusto 500 anni fa